Al Museo di Roma presso Palazzo Braschi, nella sezione dedicata alla ricostruzione di alcune parti del distrutto Palazzo Torlonia a Piazza Venezia, fino a pochi anni fa era esposto un bozzetto di un affresco di Vincenzo Morani dal titolo Apollo che riceve doni dalle Muse. L’attribuzione di questo soggetto all’opera di Morani risale al 1902, quando Oliviero Iozzi redige quello che sarebbe dovuto essere l’estremo catalogo del palazzo prima della sua imminente distruzione, in cui se un secondo affresco di Morani con Venere presentata al concilio degli dei si sa esser stato inserito nel listino di vendita della casa d’aste Tancredi, dell’altro dipinto scompare ogni traccia. Resta come ultima testimonianza della sua esistenza solo la piccola scheda di Iozzi che qui riportiamo testualmente: “Il Morani, napoletano, non fu pittore che abbia saputo uscire con le sue opere dalla via dell’ordinario; però in questa tela pose tutto il suo buon volere per apparire diligente artista. Il soggetto del quadro è Apollo che riceve omaggi dalle Muse. L’Apollo è discretamente eseguito, mentre la musa che sta ritta innanzi alla divinità, è troppo manierata”.
Alla data della stesura del libro di Iozzi, sono passati verosimilmente almeno cinquanta anni dalla fattura del dipinto e risultano scomparsi tutti gli attori principali che lo avevano voluto, commissionato e prodotto, compreso il Morani, morto nel 1870. In assenza di fonti di prima mano e testimonianze dirette, Iozzi azzarda un’interpretazione iconografica che fino al 2015 è rimasta inalterata e dunque incorretta.
Analizzando i protagonisti dell’affresco in oggetto, non si contano nove donne quante dovrebbero essere le Muse, e per di più solo quattro di loro appaiono abbigliate con pepli alla maniera antica, mentre le altre figure femminili sono nude e immerse nell’acqua. Dunque non si riscontra il numero necessario a identificare le Muse con i loro classici attributi, pur ipotizzando che magari solo alcune di loro siano rappresentate. C’è poi Apollo che scende dal carro e va incontro a una figura femminile situata al centro del quadro insieme a lui. Le altre tre figure femminili, che indossano un peplo all’antica, sono intente ad accudire i cavalli: sono le Ore, che come sappiamo erano le guardiane delle porte dell’Olimpo, ma anche le divinità preposte alla cura dei carri di Apollo e di Era, e che, quando compaiono insieme al carro di Apollo, costituiscono il segnale figurativo dell’inattività del carro e dei cavalli, se in numero di tre (altrimenti sono riferimento del tempo diurno e notturno, posizionate magari attorno al dio del Sole come appaiono nella decorazione della volta della platea del Teatro Torlonia in via Nomentana, nella tenuta della villa omonima).
Invece, sul lato sinistro del dipinto, tutti gli elementi iconografici concorrono a farci desumere che siamo in presenza di un corteo di divinità marine, tritoni, nereidi, alghe raccolte in grandi conchiglie, delfini e una grande valva sormontata da due amorini che lasciano gonfiare una stola dalla brezza. È l’iconografia tradizionale del corteo di Galatea o del suo trionfo, pressoché sovrapponibile per similitudine di elementi alla famosa Galatea di Raffaello nella villa di Agostino Chigi alla Farnesina.
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